Anche in Italia l’e-commerce è ormai una realtà consolidata che ha visto negli ultimi anni tassi di crescita da capogiro allineandosi allo scenario internazionale. Il numero di clienti ha raggiunto i 21 milioni di cui 16 sono da considerarsi abituali. Frequenza di acquisto e importo d’acquisto medio sono aumentati anch’essi portando il valore del settore a quota 23,4 miliardi. Negli stati uniti si registrano tassi di crescita del commercio online doppi rispetto a quelli del commercio offline. Crescita che sempre più spesso decreta la chiusura o il ridimensionamento di grandi aziende retail tradizionali.

 

Come possono dunque le aziende tradizionali resistere a questo mutamento?

Il primo correttivo che dovrebbe essere previsto spetta ai governi, i quali ci sentiamo di dire hanno oggi la necessità di rispondere ad una richiesta di maggiore regolamentazione del canale online. Un po’ come successo negli anni ’90 quando internet divenne alla portata di tutti e molte imprese online rischiavano di essere ritenute responsabili per i modi in cui le persone usavano i loro servizi. Nel 1996 il governo legiferò ponendo fine a questa controversa situazione svincolando le aziende online dalla responsabilità di uno scorretto uso dei loro servizi da parte degli utenti.

Molti sono oggi i casi spinosi, basti pensare ad Airbnb che non è responsabile delle azioni commesse da chi mette le proprie camere in affitto e da chi usufruisce del servizio. Una situazione similare è quella di Uber considerata un’azienda tecnologica, che quindi non deve sottostare alle dettagliate norme che devono essere rispettate dalle aziende operanti nel settore del trasporto.

La legge promulgata nel 1996 aveva la finalità di proteggere la neonata industria del web e permettere la sua fioritura; oggi la situazione però è agli antipodi in quanto le ex piccole piattaforme online sono oggi in alcuni casi colossi in grado di stravolgere il mercato in breve periodo. Si capisce quindi la richiesta dei player tradizionali che a gran voce chiedono che i rivali digitali siano soggetti alle medesime regolamentazioni e i governi iniziano oggi a prendere in considerazione qualche tipo di intervento in tal senso.

Omincanalità

A prescindere da questa necessità non bisogna però ritenere di essere vicini alla fine del retail tradizionale; pensiamo alle nuove aperture da parte di Amazon di store denominati Amazon Go, veri e propri supermercati con la sola differenza di non avere casse per il pagamento. O pensiamo ai negozi di moda, che pur aprendo canali online non rinunciano certo ai loro store dove il consumatore può toccare, provare i capi e ricevere consigli ed assistenza da parte dei commessi. In definitiva dobbiamo sempre ricordarci che il retail cambia con il cambiare delle esigenze del cliente.

In un contesto del genere l’approccio corretto sembra dunque essere l’omnicanalità, cioè la combinazione di canale fisico e canale online senza nessuna perdita da parte del consumatore in termini di esperienza e di servizio. In Italia il concetto sembra ormai essere chiaro tanto che l’88% dei retailer utilizza il canale online nel pre o nel post-vendita. Inoltre il 65% dei retailer ha un sito e-commerce e un pure player e-commerce su quattro offre il ritiro dei prodotti in negozio. Nel corso del 2017, le previsioni parlano di una performance del +30% dovuta all’integrazione tra il canale online e quello offline.

L’omnicanalità rappresenta oggi la migliore strategia competitiva per quelle aziende che hanno intenzione di sviluppare un canale online da affiancare al canale tradizionale.  Sfruttando la forza della propria rete di negozi fisici i due canali sono in grado di collaborare e portare benefici l’uno all’altro. Con l’integrazione dei canali stiamo assistendo alla nascita di un unico ecosistema di brand il quale è in grado di far sentire il consumatore in un unico ambiente ben definito e permette ad esso di interagire con il brand dove, quando e nelle forme che preferisce.